L’ultimo libro del giornalista RAI Gregorio Corigliano

di Pino Nano

L’ultimo libro del giornalista Gregorio Corigliano -la prefazione è di Rosy Bindi- è un tuffo nei ricordi della sua vita e della sua infanzia, un romanzo emozionale dove persino il rosmarino della sua casa, che sta davanti al mare di San Ferdinando, diventa protagonista assoluto del suo racconto.

“Era bellissima, la casa della nonna. E non solo perchè era la casa di mia madre, dei miei numerosi zii.  L’ho frequentata, nei miei ricordi, da quando ho cominciato a camminare. Immagino anche da quando mia madre mi allattava. Di questo però non ho, non posso avere ricordi”.

“La Casa del Rosmarino”, l’ultimo saggio di Gregorio Corigliano, storico inviato speciale della RAI, già Caporedattore di RAI Calabria e per lunghisssimi anni protagonista di primo piano della politica sindacale in RAI, è nei fatti la Storia di una saga, di una famiglia del Sud, come mille altre in quegli anni, alle prese con i mille problemi della guerra prima, della ricostruzione dopo, della rinascita ancora più tardi. Struggente il ricordo che Gregorio ci dà di sua madre e della vecchia nonna ammalata.

“Ricordo come se fosse ieri, che da quando ho cominciato a camminare, accompagnavo mia madre tutte-le-sere-tutte a trovare la nonna, la madre di mia madre che, nel frattempo, era rimasta vedova e sola. Dopo aver partorito otto figli, era arrivato il momento della solitudine e della vecchiaia, ahimè per lei. Mia madre, accompagnata da me, andava tutte le sante sere a trovarla, anche solo per sapere come stava. Anche lo zio Melo, di ritorno dalla campagna, dove trascorreva l’intero giorno a coltivare la terra, faceva la stessa cosa. Toccata e fuga, di dieci quindici minuti. Anche lo zio Ferruccio, che qualche volta arrivava sul carro, trainato da due vacche, quando doveva portare un sacco pieno di qualcosa: grano, soprattutto. Perché mia nonna era super esperta nel fare il pane della mailla, o come dicevamo noi, della “maida”: questione di dialetto. E lo zio Franco? Veniva di meno, perché abitava a Rosarno, con la sua numerosa famiglia. E quando veniva – tanto io con mia madre, dalle 18 alle 20, ero sempre in Via Bologna, 38, di San Ferdinando- portava sempre primizie e cose dolci. Lo zio Fernando, invece, veniva una volta all’anno, per un mese, perché faceva l’avvocato a Milano. Ogni anno, d’agosto, voleva trascorrerlo con sua madre”. 

Non solo Storia di una saga familiare, ma anche Storia di un popolo, quello calabrese, eternamente in bilico tra miseria e disperazione, eternamente in viaggio e in cammino, storia di una Piana quella di Eranova e Gioia Tauro, dei suoi aranceti, dei suoi contadini, dei suoi artigiani, dei suoi mandriani di pecore, dei suoi sacerdoti. Storia di una montagna quasi sacra, l’Aspromonte, irraggiungibile ed eternamente tormentato dalla paura di violenze inconfessabili, storia di uomini e di cose senza tempo che hanno affidato al mare e ai tramonti sullo stretto di Messina le proprie speranze e le proprie illusioni. Ma soprattutto storia di tante atre famiglie come la sua.

“In quella strada che, di fatto, dà sulla ex piazzetta Siena, oggi piazza Martiri di Nassirya, abitava anche la famiglia di “squagghiachiumbu” composta da Pasquale e Peppina, ed una nidiata di figli, tra cui, una mia coetanea, che si chiamava Mena. All’angolo proprio, prima i Ferrajolo, con Giovannino, collega di mio padre e le signore Adele, Franca e Anna poi Marsalina, la figlia di don Manieluccio, con la famiglia. I veri leader della piazza erano compare Pasquale e Nino. Ero sempre in casa loro a giocare, soprattutto con Angelo e Nando, coi quali, come si diceva allora, ci dividevamo il sonno o come preferiva dire qualche altro “ndi criscimmu”, ci siamo cresciuti. All’angolo, due vecchiette Peppa e Nina, mi pare, che guardavano, d’estate, le macchine dei fratelli Laghi e delle sorelle di Liliana Pulella, che venivano a prendere il bagno, si diceva così. Non ho mai più avuto notizia dei figli del professore Americo Capria, fratello dell’instancabile ed attivo preside Oreste, che abitavano pure lì. Come dimenticare Melina, la mamma di Angela e dei gemelli Ciccio e Bruno, rimasta vedova di Francesco Fornaciari, in giovanissima età? A Lei il commosso ricordo. Scendendo, verso mare, la famiglia Vetromile, poi la zia Palmira, con Lillo Vizzone, che dava il tu al latino, ma poi “rapito” dalla nipote di Leonida Repaci a Palmi. Infine Ciccio Migghio, con a za Rosetta, Mariella, Ninetta e Silvana. Anni, ma anni dopo, sarebbe arrivato il dentista Gaetano, bravissimo, sfortunato assai. Amante del mare, come Tina, Domenico e Sergio, di cui, decenni dopo, sentirò parlare a Cosenza dal comune amico Giovanni Perri. Arriverà, nel nostro quadrato di calcio, Sergio Tripodi.  Uscendo da casa e guardando di fronte, c’era Rocco Melluso, con cui abbiamo trascorso intere giornate a giocare a carte, senza poter gridare perché i suoi fratelli, Nandino e Clementino, dovevano studiare, il primo da medico, il secondo da professore d’inglese”.

Da sinistra: egorio Corigliano, al centro Emanuele Giacoia storico inviato di “Novantesimo Minuto”, e accanto a lui Demetrio Crucitti ,già direttore della Sede RAI della Calabria

Questo saggio è uno scrigno di ricordi, una cassaforte di emozioni, una narrazione romantica e straordinariamente avvincente di una Calabria che non esiste più, dove gli uomini partivano per la guerra e a casa rimanevano donne e bambini, e dove i bambini per tutta la vita hanno sognato una stretta di mano da padri invece condannati alla solitudine e ai lavori massacranti di un tempo.

“Signora Titina, mi date un rametto di rosmarino?” Puntuale ogni settimana Grazia “du fica” si presentava da mia madre a chiedere un odore che a lei era congeniale e per mia madre ancora di più tanto è che aveva fatto piantare un alberello nel cortile di casa lato mare”.

Un romanzo più che un saggio questo di Gregorio Corigliano, di grande impatto mediatico e di grande valore antropologico, dove predomina il linguaggio del cuore e dove la prospettiva è l’immagine melanconica che lo scrittore ci offre, per esempio, dei piccoli cimiteri di paese, dove dietro ogni fotografia e ogni lapide si celano e si conservano storie di famiglie patriarcali deluse dalla vita e frantumate dalle fatiche quotidiane.

La casa del rosmarino è, in qualche modo, la piccola eredità che lascio a chi ho avuto la fortuna di incontrare sulla mia strada”.

 Stato, politica, sanità, religione, vita reale di tutti i giorni, che vuol dire anche malaffare e criminalità organizzata quella che Gregorio Corigliano ci offre in questo suo diario di viaggio è un Sud che non esiste più, ma che ha lasciato da queste parti segni indelebili e pesanti del proprio essere, come per esempio il ricordo che lo scrittore ci àa dei famosi “pacchi dell’America”.

“Legata a ricordi impossibili da ripetere era l’attesa e l’arrivo del pacco dall’America. Erano due miei zii che avevano inventato questo regalo tra gli anni 60 e 70. In particolare lo zio Frank, da noi conosciuto come lo zio Ciccio e, qualche volta lo zio Melo, entrambi fratelli di mio padre, tutti e due residenti a Brooklyn. Zii che avevano finanche tentato di spedire un pacco di cose buone (cioccolata e sigarette) a mio padre quando era prigioniero di guerra in India. Pacchi che, ovviamente, non sono mai arrivati al destinatario, perché in periodo di guerra o perché rubati da qualcuno al campo di prigionia a Kangra Valley. Ce lo ha detto lo stesso mio padre quando apriva il pacco che arrivava a San Ferdinando, con destinataria, soprattutto la nonna Mariangela. Non esistono più i pacchi che venivano da Merica. Una abitudine che risale agli anni ’60. C’era allora poca gente che non avesse un parente emigrato negli Stati Uniti. Piccola o media “borghesia” emigrata negli anni ‘20 o addirittura prima, verso l’America, le mete erano Brooklyn, Buffalo, Coney Island, che fatta più o meno fortuna, non dimenticava i parenti lasciati in Calabria”.

Storia di una Calabria per certi versi arcaica, ma quanto mai reale e soprattutto quanto mai attuale, dove i giovani di oggi sembrano essere destinati alla stessa sorte dei padri o dei nonni, figli in continuo movimento, ieri si chiamava emigrazione, oggi la chiamano fuga di cervelli, ma il senso è lo stesso di allora. Si parte e non ci torna, o quando si torna si è troppo vecchi ormai per cambiare le cose. E il sogno dei padri, si trasferisce nei figli, che a loro volta lo trasferiscono ci nipoti.

“Una volta, lo ricordo perfettamente, alle cinque venne a svegliarmi mio padre, perché gli avevo promesso che lo avrei aiutato a passare un medicinale sui tronchi delle piante. Mi ero ritirato da poco, feci finta di fare uno sbadiglio e mi alzai. Anche mio padre fece finta di credere a me. Mi fece alzare comunque, il secchio ed il pennello della medicina – non ricordo come si chiamava- erano pronti. Non fece una piega, invece, quando non mi alzai, quando gli avevo chiesto di portarmi a mare con la barca per la pesca delle seppie. Non ho potuto rimproverarlo al suo rientro, con Cicciu u pilusu, dalla sua pescata. Aveva ragione lui perché non mi aveva raccomandato altro che di tornare presto dalla mia uscita serale, altrimenti non ce l’avrei fatta, com’è stato. In compenso mi feci trovare sulla spiaggia per concorrere a sistemare la sua Aurora sui legni (le falanghe). Portai le quattro seppie pescate a casa nel secchio di maresomma, si è intuito, un gran da fare, nella casa del rosmarino, del mare e dei parenti”.

È il Sud del Sud, dove tutto cambia ma solo perché nulla in realtà possa cambiare realmente le cose. Un Sud ancora fermo, immobile, bloccato dalla storia e dal progresso, che in certi quartieri e in certe realtà periferiche è ancora aria che cammina. Ma a questo Sud così lacerato, così ancora lontano dal mondo, Gregorio Corigliano dedica le sue pagine più intense, una sorta di lettera d’amore aperta alla terra che lo ha tradito e alla gente di Calabria che come lui continua a vivere sospesa tra inferno e paradiso.

Ma è quello a cui Gregorio ormai ci ha abituati da anni, soprattutto quando racconta sé stesso da ragazzo e l’amore per il giornalismo.

Da studente universitario il tempo libero lo trascorrevo dividendomi tra la sede della Dc, con Naro e Grassi e, maggiormente andando alla Gazzetta, prima in via 24 maggio e poi in Via Taormina, divenuta poi Via Bonino, in onore al fondatore del giornale. Lì conosco giornalisti affermati, tra gli altri, Gianni Morgante, Salvatore Palomba, Vincenzo Bonaventura. Mi invitano a scrivere e non corrispondenze da San Ferdinando. In particolare sulla pagina “Giovedi dei giovani” che, pur avendo tanto successo, non ebbe lunga durata. Ho scritto tanti articoli, ho fatto tante inchieste a Messina e Reggio che mi valsero l’iscrizione fra i pubblicisti”.

Quasi commovente il modo come Gregorio racconta anche la sua amicizia con uno dei più grandi cronisti della RAI di tutti i tempi.

Fatale fu l’incontro con Franco Bucarelli, storico inviato speciale del Gr2. Otto giorni in Turchia ed è fatta. Mi ha convinto, mi piaceva l’idea della Rai, tanto in politica allora, come oggi non ci sarebbe stato nulla da fare, senza prestarsi a compromessi e roba varia. Pentito? No, assolutamente.  Questo comunque non mi impedisce di scrivere di politica. Tutt’altro. Qualcosa mi è rimasto dentro anche se le soddisfazioni che mi ha dato la Rai, lavorando sodo ed a costo di immensi sacrifici personali e familiari credo che la politica non me le avrebbe date”. 

Ma come passa il tempo oggi un giornalista come lui che ha vissuto e raccontato le pagine pià complesse e anche più difficili della storia della Calabria?

Guardo, osservo, critico, mi faccio criticare solo da persone educate e per bene, specialmente sui social, non sopporto gli scostumati, anche se ogni tanto mi lascio prendere la mano e rispondo per le rime.Il resto è vita quotidiana che scorre come per tutti in maniera inseorabile e a vote impietosa”.