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RAI Senior Calabria ricorda la tragedia di Mattmark

1 Settembre, 2025 | Comunicazioni, Libri freschi di stampa, Nuova Armonia

Una delle foto conservate da Francesco Mazzei e legate alla tragedia Mattmark

La RAI nazionale ha dedicato in queste ore grande spazio alla Tragedia di Mattmark, alla luce soprattutto del messaggio di cordoglio espresso alle famiglie dal nostro Capo dello Stato Sergio Mattarella.

60 anni fa, il 30 agosto 1965 alle 17:15 una parte del ghiacciaio dell’Allalin, in Svizzera, si staccò travolgendo le baracche di alloggio degli operai che stavano costruendo la diga a 2.120 metri di altezza. La valanga di più di 2 milioni di metri cubi di ghiaccio seppellì 88 lavoratori, di cui 56 erano italiani. Tra questi anche sette giovani di San Giovanni in Fiore, in Calabria, non fecero più ritorno alle loro famiglie.

Bene, su questa tragedia il collega della Sede RAI di Cosenza, Francesco Mazzei, oggi in pensione, ma da sempre parte integrante di RAI Senior, ha scritto un libro di grande impatto emotivo e che oggi ha condensato per noi.

Il collega di RAI Senior Francesco Mazzei al centro nella foto tra Pietro Bianco a sinistra nella foto, Mara Martelli Vice Caporedattore di RAI Calabria, e Salvatore Migliari alla destra della foto.

di Francesco Mazzei

Nel dopoguerra in Svizzera, su due milioni e mezzo di lavoratori, gli stranieri erano più di un milione, di cui oltre la metà italiani: una mobilitazione impressionante che sfuggì persino agli uffici di collocamento della nostra nazione; si pensi che in alcune zone gli immigrati arrivarono a diventare un terzo della popolazione. Questa presenza massiccia e improvvisa, accentuò una certa ostilità degli indigeni verso gli immigrati stranieri e creò gravi problemi economici e sociali sia per l’Italia, sia per la confederazione elvetica.

Gli emigranti venivano, per così dire “accolti” nel cosiddetto lazzaretto di Chiasso, dove erano costretti a subire getti di zolfo, esami clinici, visite mediche: tutto si svolgeva in pochi minuti. Ad ogni emigrante corrispondeva un numero, ad ogni numero una scheda, ad ogni scheda un passaporto. Alla fine delle indagini sanitarie, un timbro sul passaporto concedeva l’ingresso legale nel paese della speranza.

All’interno degli emigrati italiani, gli “stagionali” erano considerati lavoratori di seconda categoria. Alloggiavano in squallidi scantinati o fatiscenti e freddi prefabbricati in legno, era loro proibito di portarsi la famiglia, i loro contratti venivano interrotti ogni sei mesi, erano sottoposti a lavori pesanti e pericolosi, a volte anche semiclandestini o illegali

I nostri connazionali costituivano la forza lavoro straniera più importante e gli stagionali erano da quattrocento fino a seicentomila. Nei mesi primaverili ritornavano, “come le rondini a primavera”, per riprendere il lavoro interrotto nei cantieri nei tre mesi invernali.

La Svizzera voleva braccia forti, sane e in salute. Se superavano i controlli, ricevevano il timbro d’entrata sul passaporto. Se erano cagionevoli di salute, si ritrovavano stampigliata una R, ed erano respinti. Quelli che non avevano il permesso di dimora erano marchiato con una X: erano gli indesiderabili. Chi oltrepassava il blocco sanitario e di polizia, viveva nelle baracche, con la “fisella” sotto il letto.

Il ricongiungimento familiare fu per molti anni “vietato”; fu autorizzato soltanto dopo innumerevoli denunce sui giornali, che riportavano racconti e pubblicavano le foto dei figli nascosti nell’armadio della baracca-dormitorio.

Gli Svizzeri, in fondo, erano arcigni, ma non del tutto insensibili.

In quegli anni, per gli operai emigrati il televisore era un lusso. A Zurigo, Basilea, Berna, Baden e San Gallo la scatola elettronica parlava in tedesco e francese. La televisione svizzera italiana e la Rai non era ancora visibile. Gli italiani passavano il tempo alla stazione, guardando, con animo triste, i treni del sole che continuavano a trasportare migliaia di immigrati e ad ascoltare il suono dei dialetti delle diverse regioni italiane che si mescolavano.

Intanto si verificavano i primi atti d’intolleranza e cominciavano a manifestarsi i primi movimenti xenofobi.Lo scrittore svizzero Max Frisch inventò la fortunata battuta: “Abbiamo cercato delle braccia e sono arrivati degli uomini”, ma forse neppure lui conosceva a fondo gli immigrati. La prima volta che entrò in un supermercato, sorpreso, osservò che non potevano essere operai italiani, poiché non portavano né canotta, né salopette. Un gruppo di intellettuali, operatori sociali ed economici, funzionari statali e giornalisti in un convegno vicino Basilea discussero a lungo se l’immigrazione in Svizzera dovesse mirare alla “assimilazione” o alla “integrazione” degli stranieri, mentre fu proposto di utilizzare la radio e la televisione per aiutare i “Gastarbeiter” (lavoratori ospiti), ad assimilarsi o ad integrarsi. Il perbenismo elvetico scartò il termine di “fremden”, (stranieri). Ma quel “Gast” (ospite) è stata un’invenzione linguistica, niente di più.

La prima radio a rivolgersi in italiano agli stranieri fu Radio Zurigo, grazie all’iniziativa di un giornalista liberale, Alphons Matt. La sua rubrica radiofonica si chiamava “A tu per tu”, ed era settimanale. Le voci amiche erano quelle del professor Guido Calgari, che insegnava letteratura italiana al Politecnico e di Camillo Valsangiacomo, corrispondente del “Corriere del Ticino”, con Renzo Balmelli, Mario Barino, Giuliano Cambi, Carlala, Marco Cameroni, Guido Jelmini, Eros Costantini, Edoardo Carlevaro e Zoe Salati che coprivamo la cronaca, raccogliendo le voci degli immigrati, le loro lamentele e rivendicazioni.

Approfittando della popolarità del radiogiornale fra gli italiani, successivamente cominciò ad andare in onda “Un’ora per voi”, rubrica televisiva d’informazione e svago. L’intrattenimento e i collegamenti con la Rai erano curati dalla Tsi, che, intanto, si era installata a Lugano, in una rimessa per i tram, in località Paradiso: “un paradiso per l’inferno dell’immigrazione”, titolò un giornale italiano. Responsabili svizzeri della coproduzione erano Sergio Genni ed Eugenio De Filippis. La parte informativa era assicurata dalla redazione del ‘tiggì’, con “Telesettimanale”, rubrica curata inizialmente da Simonetta Jans, poi da Giovanna Meyer ed Elena Cattori. Il successo di “Un’ora per voi” si spiegava con la dimensione umana della trasmissione che riusciva a cogliere, trasmettere e scavare sotto il termine “Gastarbeiter”. Il programma fece emergere il volto vero dell’emigrato che pensava di rimanere poco a lavorare lontano dal suo paese, ma che spesso era condannato a restarci per anni e anni di vero e proprio esilio affettivo.

Gli italiani sopportavano la fatica e le umiliazioni, la loro sofferenza era nascosta e riservata, si accorgevano di essere spaesati e confusi rispetto agli operai svizzeri. Si sentivano chiamare “gastarbetter”, (lavoratori ospiti), ma erano trattati come sgraditi stranieri, anzi “zingari”.

La professionalità e la simpatia dei presentatori, Corrado Mantoni, allora all’inizio della sua brillante carriera e Mascia Cantoni, la prima “Signorina Buonasera” della Tsi che, pur avendo sfondato in Italia quale presentatrice, sarebbe ritornata a Lugano quale regista e produttrice teatrale, sopperivano a tante tristi situazioni di disagio e al rimpianto per il paese natio.

“I mattatori sono Mascia e Corrado”. Il simpatico presentatore si metteva sovente i panni dell’emigrato: biascicava il francese e il tedesco, cercava d’ambientarsi, seppure afflitto dalla nostalgia. Mascia era composta, precisa, metodica, come una vera svizzerotta. Nelle baracche degli emigrati occupò il posto di Gina Lollobrigida e Sofia Loren. Appuntata alla parete della mensa c’era quasi sempre la sua fotografia”. Il “Telesettimanale” si esprimeva in italiano, mentre d’abitudine le notizie in tv erano date in tedesco o in francese, pertanto capite a metà. Per adattarsi al paese d’emigrazione occorreva seguire la vita politica e la cronaca, capire ciò che succedeva nelle immediate vicinanze e lasciarsi coinvolgere.

La cronaca della vita associativa. I club, le associazioni, le sezioni dei partiti, i sindacati, le missioni, le colonie libere, i circoli ricreativi, i gruppi regionali (siciliani, sardi, lucani, veneti, calabresi, napoletani, valtellinesi) e i club calcistici (i tifosi della Juve, dell’Inter e del Milan) creavano notizie e commenti, alimentando il circolo informativo.

Gli emigrati e i parenti rimasti in Italia (moglie, genitori e bambini) dialogavano via televisione. Non esisteva la diretta, i messaggi erano le sequenze filmate. Indimenticabile un saluto dalla Calabria. La moglie, il figlio e la madre fanno ciao-ciao a Giuseppe che sta in Svizzera. Gli dicono di non preoccuparsi, che al nonno non fanno mancare nulla. Il filmato riprende un monumento funebre, con la foto della buonanima e la voce fuori campo insiste: “Vedi, non gli facciamo mancare niente, neppure i fiori”.

Gli emigranti soffrivano d’ulcera e di depressione, ingoiavano solitudine e incomprensioni e anche qualche cattiveria. Taluni erano affetti da quella che gli psicologi chiamano “ipocondria cronica”.

Le canzonette e le scenette comiche del programma televisivo aiutavano a rendere meno forestiera la Svizzera e più vicina l’Italia. Questi i fattori che decretano il successo di “Un’ora per voi”, un programma seguito anche dagli svizzeri che avevano fatto il servizio militare in Ticino e, magari, andavano in vacanza in Italia nelle tre Venezie, sul lago di Garda o sulla riviera romagnola.

Il Vallese è per gran parte dell’anno una vallata soleggiata a forte vocazione turistica. Sono ben centoventi, infatti, le località invernali ed estive che attraggono visitatori. Un forte richiamo è dato dalle sue cinquantuno cime oltre i 4000 metri, ma anche dalle innumerevoli escursioni che offre ai meno spericolati a diverse altitudini. Una considerevole fonte di reddito del Canton Vallese proviene tuttavia dallo sfruttamento delle immense risorse idriche. Nel Vallese si concentrano i due terzi dei ghiacciai presenti in Svizzera. Questi ghiacciai alimentano innumerevoli corsi d’acqua, che negli anni cinquanta e sessanta sono stati sbarrati da poderose dighe.

Il Vallese infatti, produce circa un quarto dell’elettricità svizzera: l’anno. Dopo l’epoca delle costruzioni ferroviarie degli ultimi decenni dell’ottocento e il primo del novecento quindi, gli anni cinquanta e sessanta del secondo dopoguerra segnano l’epopea delle grandi costruzioni idroelettriche lungo tutto l’arco alpino, ma soprattutto nel Vallese.

A ritornare in Svizzera non erano sempre gli stessi. Dopo molte stagioni alcuni ottenevano un permesso di dimora annuale. Altri decidevano di non tornare più. Altri mettevano radici stabili in questo Paese, prendendo magari la cittadinanza svizzera. Altri ancora non poterono più tornare perché durante la loro ultima stagione avevano perso la vita sul lavoro. Era già capitato a molti (un migliaio solo nel quinquennio 1960 – 1965) e capiterà ancora ad altri, come agli ottantotto lavoratori, che perirono a Mattmark.

Il ghiacciaio dell’Allalin domina la vallata di Saas. La sua “coda”, quel tragico giorno, si schiantò sul fronte di un chilometro e distrusse, seppellendo sotto una coltre di trenta metri di neve, ghiaccio e di detriti, le baracche con i dormitori, il refettorio e gli uffici della direzione del cantiere. Venne giù un milione di tonnellate di ghiaccio e di roccia in un boato terribile.

Questa che vi raccontiamo è una tragedia di proporzioni immane. Mattmark, zona del Vallese, Svizzera. Alle ore diciassette e quindici del trenta agosto 1965, nella valle di Saas, la sirena della morte urla più tragica che mai, annuncia gli strazi di una catastrofe. Una gigantesca massa di ghiaccio si stacca dal monte Allalin e crolla sul cantiere di una diga in costruzione. Travolge e seppellisce ottantotto operai, cinquantasei sono italiani. Provengono in gran parte da Belluno e San Giovanni in Fiore, aree segnate dal triste primato dell’emigrazione nell’Italia del boom economico. Mattmark era uno dei cantieri dove si guadagnava bene. Il salario, tuttavia, non compensa l’esposizione al rischio e alla sicurezza dei lavoratori impegnati in quel cantiere.

Pochi istanti prima della tragedia, i lavoratori odono il sinistro scricchiolio della lingua di ghiaccio che si stacca e, istintivamente corrono verso le baracche alla ricerca di un rifugio. Ma la loro è una corsa verso la morte. Rimangono sepolti sotto un mare di ghiaccio. Il recupero delle salme è estremamente difficile. Delle ottantotto persone rimaste uccise cinquantasei sono italiani e poi ventiquattro svizzeri, tre spagnoli, due austriaci, due tedeschi e un apolide. Le operazioni di recupero dureranno più di due mesi: l’ultimo cadavere sarà recuperato solo il 19 dicembre del 1965.

Mattmark è l’ennesima tragedia del lavoro, l’ennesimo olocausto di uomini in nome del progresso. Ancora una volta la logica del profitto ignora le misure di sicurezza, Nessuna misura di protezione era stata predisposta, nonostante il cantiere e gli alloggi degli operai si trovassero ai piedi di un ghiacciaio noto per la sua instabilità. Uno dei testimoni racconta che solo dopo la sciagura verrà installato un sistema di allarme e saranno programmate esercitazioni per la prevenzione È la più grave catastrofe della storia svizzera dell’edilizia. Da tutto il mondo giungono dichiarazioni di solidarietà. I sindacati italiani inviano telegrammi di condoglianze. Il 9 settembre il consigliere federale Hans-Peter Tschudi commemora le vittime a Saas Grund. La “Catena della solidarietà” e il “Soccorso operaio svizzero” raccolgono numerose donazioni. Anche la Flel e il Canton Vallese intervengono mettendo a disposizione contributi per far fronte all’emergenza.

L’indignazione in Italia è tanta. Nel parlamento italiano le voci critiche vedono nella sentenza assolutoria dei giudici elvetici una conferma dei pregiudizi contro i lavoratori stranieri. Il giornale protestante “Nuovi Tempi” lancia un appello alle chiese svizzere, affinchè prendano le dovute distanze. dalla scandalosa sentenza. Con grande sdegno il giornale ricorda che, negli ultimi dieci anni, ben 1154 lavoratori italiani hanno perso la vita in Svizzera. I tre grandi sindacati italiani Cgil, Cisl e Uil protestano uniti contro una sentenza che definiscono inaccettabile. Il governo italiano si dichiara pronto a farsi carico delle spese processuali tramite il fondo del consolato per la tutela giuridica costituito presso l’Ambasciata italiana a Berna. La giustizia vallesana però non prende neanche in considerazione una remissione delle spese a favore delle famiglie delle vittime. Sul banco d’accusa non finisce allora solo l’azienda costruttrice, ma anche l’avidità di profitto, la fiducia nella scienza e il delirio d’onnipotenza di un’intera epoca. Fausto GULLO, prendendo la parola alla Camera, traccia con scientifica documentazione la tesi che non vi è altra via se non quella dell’emigrazione per soddisfare la fame di lavoro nel meridione.

I morti di Mattmark sono passati in rassegna anche dalla stampa. Non si legge novità d’impostazione rispetto alle cose dette in occasione di precedenti disastri. La fatalità, seppure non categoria onnivora, viene rispolverata, si distinguono netti gli accenti della solidarietà con le famiglie dei morti, è forte la richiesta di andare a fondo nella ricerca delle responsabilità, è apprezzata la sollecitudine sociale del Governo verso le famiglie colpite. Ma nessun giornale della stampa liberal-democratica compie uno sforzo per riconsiderare la possibilità che i lavoratori possano finalmente avere il diritto di lavorare nel loro paese. L’emigrazione, anche quando è spruzzata di sangue, non si tocca. È una dolorosa necessità, ma sempre necessità della repubblica italiana, la cui carta costituzionale mette al primo punto il lavoro.

Il cordoglio e l’emozione per la tragedia furono molto grandi in Italia ed in Svizzera ma, malgrado le denunce e la mobilitazione dell’opinione pubblica, l’inchiesta si protrasse per alcuni anni per concludersi senza l’individuazione di nessuna responsabilità o colpevolezza. Sotto accusa finisce “l’Elektrowatt” la società costruttrice. All’inizio la tragedia viene ricondotta ad una catastrofe naturale. I titoli dei giornali parlano di forza della montagna e di destino, morte e distruzione. Poco dopo, però, cominciano a farsi strada le prime riflessioni sull’efficacia delle misure di sicurezza adottate. Nel documento “Vittime del lavoro” l’Unione sindacale svizzera scrive: “Dovremo pur chiederci se sono state adottate tutte le misure necessarie. Il ghiacciaio di Allalin è sempre stato noto per la sua instabilità; eppure gli alloggi dei lavoratori sono stati costruiti proprio sotto il ghiacciaio, in una zona ad alto rischio”. Il 17 settembre parte l’inchiesta ufficiale e vengono ordinate le prime perizie. La committente, “l’Elektrowatt”, finisce sotto pressione. L’ombra della responsabilità grava, però, anche sull’Istituto nazionale svizzero dell’assicurazione infortuni e sulle autorità vallesane competenti per il rilascio delle autorizzazioni. Si sollevano domande critiche, ma, al tempo stesso, non si vogliono formulare accuse precipitose contro l’azienda committente. Poco dopo la tragedia la direzione dei lavori decide la continuazione della costruzione della diga anche nella zona a rischio. Le voci di critica si moltiplicano, invece, all’estero, soprattutto in Italia. Le cause della tragedia che è costata la vita a queste sfortunate persone vengono identificate nelle lacune delle misure di sicurezza. Le numerose iniziative volte a raccogliere donazioni fanno, inoltre, avanzare il sospetto che le famiglie delle vittime vengano lasciate alla mercè della miseria. Le organizzazioni sindacali e industriali elvetiche correggono la loro rotta e pubblicano lunghi articoli sui diritti assicurativi e pensionistici dei migranti. Contemporaneamente, lanciano anche il dibattito sui rischi di infortunio e malattia legati al mondo del lavoro.

Fatalità, pressapochismo, omissioni, poca sorveglianza, incompetenza, assenza di allarmi, fiducia nella scienza: sono queste le cause che hanno generato la tragedia, eppure segnali di movimento del ghiacciaio si erano verificati. Non c’è mai stata, per di più, la sorveglianza fotogrammetrica della zona ed erano inoltre stati ignorati i dichiarati timori dei lavoratori.

La sentenza di assoluzione è veramente vergognosa. Dinanzi ai tribunali svizzeri, al processo di primo grado comparivano imprenditori e tecnici imputati di negligenza sulle misure di sicurezza. I tempi dell’inchiesta penale sono lunghissimi. Dopo quattro anni il processo penale non è ancora stato avviato. La prima udienza viene fissata solo sei anni e mezzo dopo la tragedia. Il 22 febbraio 1972 diciassette imputati tra cui direttori, ingegneri e due funzionari Suva sono chiamati a rispondere delle loro azioni di fronte al Tribunale distrettuale di Visp. Gli occhi della stampa mondiale sono puntati sul processo. Il capo d’accusa: omicidio colposo. La pena massima richiesta dal procuratore pubblico è per solo il pagamento di multe da millecinquecento a tremila franchi svizzeri. L’opinione pubblica è incredula e accoglie la notizia con severe critiche. Una settimana dopo il tribunale assolve tutti gli imputati: la catastrofe non era prevedibile. Nella motivazione della sentenza il tribunale spiega che una valanga di ghiaccio rappresenta una possibilità troppo remota per essere presa ragionevolmente in considerazione e dopo, il ricorso in appello, le famiglie delle vittime furono condannate a pagare le spese processuali. Così tra scalpore e indignazione si conclude la vicenda e, nonostante tutto, i lavori per la costruzione della diga proseguono e vengono portati a termine.

Per questi lutti, nessuno pagherà mai. Sbrigative sentenze manderanno assolti imprenditori, dirigenti, funzionari, tecnici: fu incredibile, anzi scandalosa, la clemenza dei giudici elvetici.

Il 18 marzo 1972 migliaia di immigranti scendono in strada a Ginevra. Chiedono giustizia per le vittime di Mattmark e denunciano il disprezzo per la vita dei lavoratori.

Contro la sentenza viene presentato un ricorso al Tribunale cantonale di Sion. Alla fine del mese di settembre 1972 i tre giorni di udienza si concludono, ancora una volta, con l’assoluzione di tutti gli imputati. Anche la seconda istanza conferma, dunque, la tesi dell’imprevedibilità della catastrofe e, ancora una volta la reazione della stampa italiana è molto dura. La decisione con cui i familiari dei ricorrenti vengono obbligati a pagare la metà delle spese processuali suscita una profonda ondata d’indignazione: le famiglie delle vittime si ritrovano a dover versare al Canton Vallese dai millecinquecento ai tremila franchi (circa centocinquantamila, trecentomila lire di allora). L’effetto simbolico è devastante. La Svizzera entra nell’immaginario collettivo come un paese arrogante e crudele.

Nella disgrazia di Mattmark invece si trattò ben più che d’imprudenza, perché il ghiacciaio Allalin, per sua natura instabile, gravava come una spada di Damocle sulle baracche degli operai. Ma per i tribunali nessuno poteva essere considerato colpevole. L’opinione pubblica sia svizzera che italiana reagì con sdegno. A giusta ragione il sindacato lanciò un atto d’accusa non solo contro l’azienda costruttrice, ma soprattutto contro la bramosia del profitto, la cieca fiducia nella scienza, “il delirio d’onnipotenza di un’intera epoca”. Esigeva maggiore sicurezza dei cantieri e maggiori controlli. Per quegli 88 morti era troppo tardi. Le ragioni dell’economia sopravanzavano di gran lunga tutte le altre, compresa la sicurezza dei cantieri. Si disse che le disgrazie sul lavoro erano inevitabili, tanti e tali erano i cantieri di montagna in quei decenni di corsa frenetica all’approvvigionamento di energia idrica, non solo nel Vallese, ma in tutto l’arco alpino svizzero.

Ricordare le vittime italiane di Mattmark ancora oggi deve servire da monito, anche in Italia, per evitare stragi di innocenti, perché fu l’assenza di adeguate misure di precauzione nell’allestimento del cantiere e nella costruzione delle baracche dei lavoratori a provocare la morte  di tanti operai, ritenuti di serie B, perché stranieri e sui quali non valeva la pena di investire troppi soldi per proteggerli. E invece erano giovani uomini, recatisi in Svizzera per garantire un futuro migliore a sé e alle proprie famiglie, uomini che fuggivano dalle precarie condizioni di lavoro in Italia e si rendevano disponibili a durissimi sacrifici pur di esercitare un onesto lavoro per guadagnarsi un tozzo di pane e quattro lire da mandare alla famiglia rimasta in Italia.

Qui di seguito il servizio che RAI Calabria mandò in onda 25 anni fa per ricordare la tragedia, servizio montato e coordinato dallo stesso Francesco Mazzei.

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