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“Alzarsi all’alba”, l’ultimo libro di Mario Calabresi

16 Settembre, 2025 | Libri freschi di stampa, Nuova Armonia

Il giornalista-scrittore Mario Calabresi

di Pino Nano

“Ho scelto di trattare un tema fuori moda, quello della fatica, perché è un aspetto fondamentale della nostra esistenza e perché in un mondo troppo virtuale ci rimette con i piedi per terra e ci ricorda che la vita è fatta di esperienza concrete e reali”.

Ci sono dei libri che sembrano predestinati al successo editoriale come pochi altri, e io credo che questo sia il caso di “Alzarsi all’alba”, l’ultimo libro scritto da Mario Calabresi, direttore del quotidiano La Stampa dal 2009 al 2015 e del quotidiano La Repubblica dal 15 gennaio 2016 al 18 febbraio 2019.

Il libro edito dalla Mondadori uscirà in libreria e negli store online il prossimo 16 settembre. Poi, sabato 20 settembre alle 17, la prima presentazione ufficiale a Pordenone, il 24 a Bologna, il 1° ottobre a Milano, e il 5 a Verona. E per Mario Calabresi sarà ancora una volta l’occasione ideale per raccontarsi, per parlare della sua vita, per rivivere in mezzo al suo pubblico ricordi ed emozioni che solo lui sa ancora raccontare con la semplicità dei grandi scrittori moderni.

 “Venerdì 8 gennaio 2016, una settimana prima di diventare direttore di Repubblica -scrive Mario Calabresi-, feci una nota sul telefono, una delle migliaia che ho scritto in questi anni, che aveva questo titolo: “Alzarsi all’alba”. Poi c’era un sottotitolo che recitava: “Perché solo la fatica ci salverà”. Non ho idea cosa mi spinse quel giorno a cominciare a raccogliere idee e esempi di storie di dedizione, di lavoro, di pazienza, di tenacia, di sacrificio, in una parola di fatica. Ricordo però che già allora pensavo fosse necessario provare a ridare un significato più pieno e completo a una parola che oggi ha soltanto un’accezione negativa. Ma non solo, anche a sfatare l’illusione che la fatica potesse scomparire dalle nostre vite. Nel tempo ho raccolto idee e storie e adesso questo viaggio è finito ed è diventato il mio nuovo libro”.

In questo libro c’è di tutto, c’è la malinconia del tempo perduto, c’è la passione per il mestiere del giornalista che Mario fa da sempre, c’è l’emozione dei ricordi della sua infanzia, ma c’è soprattutto la fierezza di chi usa la scrittura per dare un senso alla propria vita.

Faccio il giornalista fin da bambino, se giornalista significa avere curiosità di tutto quello che accade nel mondo. Mi piace capire il perché dei fatti e le storie delle persone. Ho cominciato indagando cosa succedeva nel condominio e a leggere tantissimo, qualunque cosa mi capitasse per le mani. Ho raccolto per anni le storie della mia famiglia e fin dalle scuole medie ho riempito cartelline con ritagli di articoli sulle campagne elettorali americane, sognavo di seguirne una. Ce l’avrei fatta quando di anni ne avevo già 38 e per diciotto mesi percorsi l’America in lungo e in largo seguendo Barack Obama, Hillary e Bill Clinton e John McCain. Una mattina, sotto l’albero dove il giovane Barack si rifugiava a studiare nella sua scuola di Honolulu, sentii che il sogno si era realizzato”.

Del tutto meraviglioso il ricordo che Mario Calabresi conserva ancora della nonna e da cui ha di fatto imparato a capire cos’è la fatica.

Scrive Mario Calabresi: “Ormai novantenne ogni mattina si alzava presto e si attribuiva una serie di compiti e di doveri per la giornata. Cose che avrebbe potuto evitare e che nessuno le chiedeva, ma che la tenevano viva. Con lei ho parlato molto di come il Novecento fosse stato il secolo della liberazione da fatiche antiche e terribili: lavare a mano ogni giorno, procurarsi il ghiaccio in blocchi per la ghiacciaia prima dell’avvento del frigorifero, pedalare con ogni tempo per ore per andare a scuola o a lavorare, sopportare il freddo in case in cui era calda solo la cucina, il lavoro della campagna completamente manuale, i ritmi alienanti della fabbrica. Restava però un’idea diversa della fatica, intesa come dedizione, costanza, pazienza, tenacia. La convinzione che non ci sono le scorciatoie e che, se ci sono, sono un inganno”.

14 storie diverse più una prefazione piena di tante altre microstorie, una sorta di diario della vita on the road del grande cronista, e in cui Mario racconta i suoi personaggi come se appartenessero alla sua famiglia, un racconto intenso, pieno di profumi e di odori, forte come un pugno nello stomaco, che ti prende l’anima, pieno di luce e di colori accesi, che prevalgono sulle mille variazioni di grigio che la vita ci riserva. Ma perché questo libro nasce solo ora?

Mario Calabresi lo spiega nella sua prefazione con il candore di un adolescente.

Ho aspettato molto a scrivere, perché sentivo il rischio di fare un libro nostalgico, con la testa rivolta all’indietro, che finisse per avere come modello il mondo dei miei nonni. A me piace indagare il passato, ma non amo l’idealizzazione dei “bei tempi andati”, così cercavo una chiave di racconto che fosse più convincente. Finché una mattina, di fronte alle onde di un mare primaverile molto agitato, ho sentito per la prima volta, dopo tanto tempo, delle parole incredibili e fuori moda. Le ha pronunciate una ragazza speciale”.

E da qui parte questo bellissimo racconto che fa oggi di Mario Calabresi uno scrittore a 360 gradi, capace di emozionare e di travolgere il suo pubblico, e che a differenza di quando faceva il giornalista militante, ha riacquistato un sorriso e una serenità che non è di tutti i giorni.

Avevamo appena finito una lunga chiacchierata e lei doveva allenarsi. Ha indossato la muta, ha raccolto i lunghi capelli sotto la cuffia e prima di cominciare a camminare faticosamente sulla spiaggia, verso l’acqua gelata, mi ha raccontato un’ultima cosa. Quella che ha messo in moto questo libro. Veronica ha entrambi i piedi amputati a metà, la sabbia è un ostacolo ma lei sorridendo si è messa in cammino. L’ho seguita con lo sguardo finché non l’ho vista tuffarsi e nuotare verso il largo. L’ho invidiata, ho invidiato quella forza appassionata e trovato straordinariamente audace l’ultima frase: «La fatica la devi adorare».

Ma nella vita tutto cambia, e così è stato anche per la vita di Mario Calabresi, che diventando grande impara a capire come anche la fatica possa passare di moda.

Ho visto –scrive lo scrittore– la parola «fatica» assumere un significato solo negativo e scomparire dal vocabolario quotidiano. Tanto da chiedermi se ci sia mai stato davvero un tempo in cui era interpretata in modo positivo. Allora mi torna in mente mio zio Carlo che arriva in cima a un colle, durante una gita in montagna. È a torso nudo, ha dei pantaloni in velluto alla zuava, una fascetta gialla sulla fronte e un asciugamano intorno al collo, e tutto rosso in faccia dice: «Che bella fatica abbiamo fatto».

Un libro questo di Mario Calabresi che andrebbe letto nelle scuole, che andrebbe regalato e fatto leggere ai ragazzi, agli adolescenti, a chi si prepara a vivere una vita di successo e di lavoro, perché dentro queste pagine piene di famiglia e d’infanzia il grande giornalista di un tempo spiega il vero significato della parola “fatica”.

Zio Carlo…Penso a quando gli diagnosticarono un cancro al cervello e per le cure perse la vista da un occhio ma non volle mai comportarsi da malato. Amava tantissimo sciare e qualunque attività da fare montagna, ma con la vista da un solo occhio sembrava difficile poter continuare. Fece un ciclo di cure in Francia, ci andava guidando il suo pulmino, quello con cui portava in giro la sua numerosa famiglia con sei figli, e sulla strada del ritorno passava dalla Valle d’Aosta. Era inverno, così cominciò a portarsi gli sci e a fermarsi subito dopo aver attraversato il traforo del Monte Bianco. Sciava da solo, per sentire il vento in faccia, per sentirsi vivo, per avere il tempo di reimparare a farlo con un occhio solo, per prendere le misure con la sua nuova vita”.

Confesso di aver letto di Mario Calabresi tutte le sue 263 storie che mi arrivano sulla mia mail personale, ma devo ricredermi: ogni qualvolta leggo le sue cose penso “questa sarà l’ultima, è davvero bellissima”. Poi invece mi arriva la lettera successiva e scopro nuovi bagliori d’animo e nuove pulsioni, e allora capisco perché per lanciare il suo nuovo libro lo scrittore utilizza oggi una delle frasi più belle di Victor Hugo: “L’alba ha una sua misteriosa grandezza che si compone d’un residuo di sogno e d’un principio di pensiero.”

Ma dimenticavo di dirvi forse la cosa più importante, e cioè che uno dei capitoli più belli di questo romanzo così struggente è il racconto che Mario Calabresi fa del suo canotto regalatogli da nonno Mario dopo l’esame di quinta elementare, ma che lui poté usare solo dopo un paio di settimane di lavoro nell’azienda di famiglia: “In quell’estate dei miei 11 anni -scrive Mario Calabresi- avevo capito che le cose che conquisti con un po’ di attesa e di fatica hanno un gusto diverso. L’ho amato tantissimo, quel canotto, che è durato una vita ed era pieno di toppe per chiudere i buchi. L’ho amato perché avevo la sensazione di essermelo guadagnato davvero”.

La morale?

«Non darsi mai per vinti– gli risponde un giorno Manuel Bortuzzo, il nuotatore ventenne che il 3 febbraio del 2019 viene colpito alla schiena sulla strada di Ostia dai proiettili sparati contro di lui da due giovani che forse cercavano qualcun altro- La cosa importante è non lasciarsi andare e continuare a fare fatica, non spezzare il ritmo. Un giorno senza fatica è un giorno perso. Quando uno ha sfortuna nella vita, quando capita qualcosa che fa deragliare i piani, che distrugge i tuoi progetti, devi dimostrare che questa sorte negativa la puoi sconfiggere. In che modo? Non farla vincere significa non lasciarsi trasportare dai sentimenti negativi, non farsi contagiare dalla rabbia, significa anche semplicemente sorridere. Non pensare a quello che si è perso ma a quello che c’è davanti, così esiste il futuro».

Non perdetevi questo romanzo.

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